Parlare di felicità, di questi tempi, può sembrare fuori luogo ma, diciamocelo, esiste un luogo, un momento adatto per tirar fuori questo argomento? La verità è che c'è un sorta di pudore a parlarne. Solo nelle rubriche tipo "posta del cuore" o "lo psicologo risponde", protetti dall'anonimato, confessiamo che vorremmo essere felici: nella vita di tutti i giorni; quando parliamo con familiari, colleghi ed amici non facciamo altro che scambiarci le nostre infelicità, condividere problemi e lamentele. Insomma, la felicità individuale appare un comportamento, o anche solo un desiderio, socialmente riprovevole.
Del resto, se dalla felicità individuale allarghiamo il discorso alla felicità sociale, le cose non vanno meglio.
Queste mie riflessioni prendono spunto dalle "Invasioni barbariche" dell' 08-04-11, in cui, ospite Bianca Berlinguer, viene trasmesso un breve spezzone dell'intervista che nel 1983 Minoli fece al padre Enrico per "Mixer": alla domanda su che cosa gli dà più fastidio della sua immagine pubblica, Berlinguer risponde che gli dispiace essere definito un uomo triste, semplicemente perché "non è vero". Ma è pur vero che in Italia la sinistra si è sentita e tuttora si sente in dovere di essere triste (su Facebook esiste un gruppo "Perché la gente di sinistra è sempre triste", ma poi si scopre che per questi signori triste è sinonimo di arrabbiato). La destra dal canto suo ostenta ottimismo ad oltranza e barzellette di cattivo gusto, ma, decisamente, la felicità è un'altra cosa.
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